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L’INFERNO ESISTE. IO CI SONO STATO

Ho visto fin dove si può spingere la malvagità dell’uomo. 

Ho visto quanto sia banale il male. 

Ho visto dei luoghi che sembravano irreali. 

Ho visto Auschwitz.

E ho capito che l’inferno dei campi nazisti, per quanto possa essere ben descritto, non si può comprendere a fondo se non vedendolo di persona.

Ad Auschwitz tutto è troppo per essere banalmente descritto. Troppo pesante. Troppo crudele. Troppo schiacciante.

Sembra di entrare in un luogo extraterrestre e, mentre si cammina in quel luogo di morte, non si capisce come l’uomo sia potuto arrivare a tanto. 

Il viaggio ad Auschwitz è un’esperienza che tutti, almeno una volta nella vita, devono fare. Toccante. Struggente. Disarmante. Fondamentale.

Auschwitz non è un museo.

Auschwitz è un cimitero senza tombe.

 

Il campo di concentramento di Auschwitz si divideva, al tempo della seconda guerra mondiale, in quasi 50 sotto campi diversi di cui oggi ne rimangono solo tre: Auschwitz I, Auschwitz II/Birkenau, Auschwitz III/Monowitz. 

Il primo era un campo di concentramento, il secondo di sterminio, il terzo di lavoro. Una divisione che già a parole mette i brividi.

 

L’ingresso di Auschwitz I riporta la famosa scritta “Arbeit Macht Frei”: è un cancello piccolo, ci passa appena una macchina. Il campo non è grandissimo. Ci sono circa trenta blocchi, dei caseggiati di mattoni all’interno dei quali i detenuti dormivano, lavoravano e morivano. Oggi molti di questi sono adattati a museo e conservano le testimonianze del campo. Devastanti, emotivamente, sono le stanze con gli oggetti rubati ai deportati. 

Pentole. Utensili. Scarpe. Vestiti. Protesi, Occhiali. Capelli. E se è inimmaginabile trovarsi davanti a quasi 60mila scarpe appartenute a deportati innocenti che in quel campo hanno trovato la morte, pensate ai capelli. Intrisi di Zyklon B, questi ciuffi, strappati senza pietà ai cadaveri, dopo averli uccisi barbaramente nelle camere a gas, tra poco meno di 50 anni non esisteranno più. Ne rimarrà solo polvere. 

Ovviamente è presente anche la stanza coi barattoli vuoti di questo gas assassino. 

Ne servivano dai cinque ai sette chili per uccidere circa duemila persone.

Per capirlo i nazisti hanno fatto delle prove. Nel blocco 11. Il blocco della morte. Quando ci si arriva si ha una sensazione pesante, difficile da descrivere. È un caseggiato uguale agli altri, nel cui sotterraneo c’erano le prigioni. Un corridoio cupo e tetro porta alle varie celle. La cella 18 è quella in cui ha passato gli ultimi giorni Padre Kolbe. La cella 20 è quella in cui si moriva per asfissia, non avendo nessun sistema per il cambio dell’aria. La cella 22 è quella in cui i detenuti passavano la notte in 4 bunker di 90x90cm, spazi completamente murati e privi di ricambio dell’aria. I 4 malcapitati che dovevano “dormire insieme” morivano solitamente in massimo due notti. 

In totale le celle sono venticinque. Ed è in questo scantinato che per la prima volta i nazisti hanno usato lo Zyklon B. I malcapitati furono 450 polacchi e 250 prigionieri di guerra sovietici. La loro agonia durò fino a tre giorni, perché allora non si conosceva ancora la quantità esatta necessaria per uccidere.

Fuori dal blocco 11 c’è il muro delle fucilazioni. Soffermarsi a pensare che migliaia di persone hanno avuto come ultima visione della loro esistenza quel muro mette i brividi, rende pesanti le gambe, ferma il pensiero, forse il tempo.

Le stesse sensazioni si provano nella camera a gas. Uno spazio angusto, cupo, stretto, ma largo abbastanza da uccidere circa 800 persone alla volta. Quella del campo I è stata riadattata a Bunker antiaereo delle SS, spaventate dalla possibilità di bombardamenti alleati. Ma all’interno si respira lo stesso l’aria di morte. E sono ancora presenti i segni dei graffi delle persone che cercavano di aggrapparsi alle pareti per trovare ossigeno. Credo non serva aggiungere altro alla descrizione per esprimere la pesantezza del luogo. 

 

L’ingresso di Auschwitz II/Birkenau invece è molto diverso. Qui si arrivava in treno. Nei carri bestiame. A migliaia. E di queste migliaia più della metà morivano subito. Di circa un milione e trecentomila deportati, solo quattrocentoquarantamila diventavano detenuti effettivi del campo. Gli altri finivano nelle camere a gas entro pochi giorni, non venivano neanche registrati. D’altra parte Auschwitz II/Birkenau era un campo di sterminio. Il suo principale obiettivo era quello di uccidere quante più persone possibili in poco tempo. Solo scrivere questa frase mi mette i brividi.

Varcato l’ingresso ci si rende subito conto della grandezza del campo. Duecento ettari. Non si vede la fine. Ci si sente piccoli. Insignificanti. 

Sulla destra ci sono le baracche. Oggi ne restano poche. Essendo in legno, la maggior parte sono state distrutte poco prima della fuga. In quelle sopravvissute sono stati ricostruiti i “letti” dei deportati. 

Riuscire a pensare che delle persone possano dormire in quel luogo è impossibile. 

La baracca non è quasi riscaldata. 

Se fuori ci sono 3 gradi, dentro si arriva a malapena a 5. 

Il vento soffia a cinquanta chilometri orari. 

È freddo. Entra nelle ossa. 

Anche all’interno della baracca.

Sapendolo ci siamo vestiti abbastanza da non patirlo, ma il freddo lo abbiamo sentito lo stesso. Anche dentro la baracca.

Riuscire a pensare che i deportati dovessero sopportare inverni con temperature proibitive con addosso appena un pantalone e una camicia è impossibile: -20 gradi, in Italia, non sappiamo neanche cosa vogliano dire.

Seguendo il binario si arriva al luogo della selezione.

Un piazzale stretto in cui i deportati, appena scesi dal treno, venivano scelti. 

Gli abili al lavoro a destra. Gli inabili a sinistra. Gli abili al lavoro a fare la doccia. Gli inabili in camera a gas. Senza perdere tempo. 

Nel piazzale è presente un vagone. Pressappoco è lungo dieci metri e largo non più di tre. Per i nostri standard venti persone ci stanno strette dentro. All’epoca ne entravano dalle ottanta alle cento. 

Il viaggio durava tanto. Dai cinque ai dieci giorni. 

Più della metà dei deportati moriva senza aver mai visto il campo.

Il vagone è la tomba di una persona ebrea. Un padre, morto lì. È stato acquistato e donato dal figlio per ricordare chi come lui e suo padre è stato costretto a vivere la selezione e l’internamento.

Riuscire a pensare che di fronte a quel vagone, con un semplice sguardo, veniva scelto il destino di un’esistenza è impossibile.

In fondo al binario è presente il memoriale: una serie di targhe di marmo incise in tutte le lingue dei paesi che hanno visto delle vittime nel campo. Una zona di ricordo ai cui lati si trovano i luoghi di morte. 

A destra e a sinistra del memoriale sono presenti, infatti, i resti di due camere a gas. Sono strutture enormi. Vi entravano senza uscirne duemila persone alla volta. Prima delle strutture è presente un prato. I detenuti ci giocavano a calcio. Era l’unico luogo di normalità in quell’inferno. Vi si giocavano le uniche partite nella storia in cui, tra un goal e l’altro, c’era la possibilità di morte.

Alle spalle delle camere ci sono due laghetti. Non sono grandissimi. Servivano per disfarsi della cenere dei corpi. Ancora oggi, in quei laghetti, sono presenti le ceneri dei detenuti morti. 

Anche solo pensarci è impossibile.

Le docce vere invece sono lontanissime. Si trovano alle spalle delle baracche dove venivano conservati gli averi dei deportati che oggi sono messi in mostra al campo I.

Il tempo per farsi la doccia variava dai due ai quattro minuti e, in contemporanea, c’era la pulizia dei vestiti. Se, finita la doccia, il tuo vestito non era ancora pronto, dovevi uscire all’esterno e aspettare. Bagnato. Al freddo e al gelo. Si moriva anche così in quei luoghi.

Poco distante si trova il prato dove venivano bruciati i cadaveri prima della costruzione dei forni crematori. Arrivati qui, non si vede più l’ingresso del campo. 

Riuscire a pensare che in quel luogo dei cadaveri umani venissero ammassati a centinaia per essere bruciati è impossibile.

Ad Auschwitz II/Birkenau qualsiasi cosa si provi a pensare è impossibile. 

Non difficile.

Impossibile.

È impossibile pensare che degli esseri umani venissero sottoposti a questo.

Quello di Auschwitz non è un trattamento che si riserva a un uomo.

Neanche ad un animale.

Neanche ad una cosa.

Neanche a delle feci.

È peggio. 

Non esiste un termine di paragone per questo trattamento.

 

Quando il giro finisce, bisogna tornare all’ingresso. Ripassare in quei luoghi. Riflettere. Vi assicuro che sono stati gli 800 metri più difficili della mia vita. Ci ho impiegato 45 minuti per percorrerli. Per alcuni troppi. Per altri pochi. La giornata nuvolosa e il rumore del vento rendono tutto sovrannaturale. 

Arrivato al cancello di ingresso trovo una famiglia che si sta scattando una foto. Madre, padre e due figli. Tutti giovani. Avranno trent’anni i genitori e al massimo sette i figli. Sorridono.

Non sono i primi che vedo sorridere durante il giro del campo. Ne ho trovati due che si scattavano sorridenti un selfie davanti ai resti della camera a gas. Un altro che di fronte alla cella di Padre Kolbe ha sorriso. Tanti bambini, in visita come noi, sono allegri, ridono e scherzano. Un altro si scatta una foto di fronte al muro delle fucilazioni.

Imbarazzo. Provo questo verso di loro. Essere in quel luogo e non capirlo, non sentirlo e non rispettarlo ti rende un uomo indegno. Farsi un selfie dove sono morte delle persone ti rende un uomo indegno. Ridere di fronte a una camera a gas ti rende un uomo indegno.

In effetti forse più che imbarazzo provo rabbia verso di loro.

Perché chi oggi visita Auschwitz ha il privilegio di entrarci sapendo che quella è stata la storia ed è libero di uscirci essendo un uomo libero. Una libertà che per un milione e mezzo di persone quasi non esisteva. Chi entrava lì, non usciva più.

Ecco perché quando vedo gente ridere e farsi i selfie in un luogo come questo mi sale una rabbia indescrivibile.

Spesso si dice che studiando la storia si evita che questa si ripeta.

Non è vero.

La storia la studiamo tutti. Eppure c’è gente che di fronte ad Auschwitz ride.

D’altra parte orrori come quelli che hanno perpetrato i nazisti durante la guerra avvengono ancora oggi in molte parti del mondo. 

I campi di concentramento esistono ancora. 

E nessuno ne parla. 

E i nostri governi li finanziano. 

E noi viviamo contenti. 

La ghettizzazione, la discriminazione e il pregiudizio sono stati alla base dello sterminio nazista.

Eppure ancora oggi sono ben radicati in molte persone.

Come possiamo essere sicuri che Auschwitz non si ripeta più?

Non si può.

Si può solo provare a convincere quante più persone a visitare quei luoghi.

Starà a loro la facoltà di scegliere, dopo.

Tra ricordo e discriminazione.

Tra rispetto e risate.

Tra memoria e selfie.

Tra preghiera e chiacchiere.

Tra vergogna e indifferenza.

Solo così, forse, riusciremo a rendere davvero omaggio alle vittime.

Ricordando le loro storie.

Evitando che se ne scrivano delle nuove.

Perché quell’inferno mi ha insegnato questo.

Quell’inferno che noi, banalmente, chiamiamo Auschwitz.

 

Lorenzo M., 5I

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