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“Tu quoque, Brute, fili mi!”

Le ultime parole del grande dittatore romano Giulio Cesare.

Nell’antica Roma, durante le Idi di marzo (dal latino idus, il termine veniva utilizzato dai romani per indicare la metà del mese. In particolare, esso si riferiva al quindicesimo giorno di marzo, maggio, luglio e ottobre e il tredicesimo giorno degli altri mesi), che cadevano il 15 del mese, avvenivano i festeggiamenti in onore di Marte, il dio della guerra. In questa data è accaduto anche un fatto storico: l’assassinio di Giulio Cesare. Gaio Giulio Cesare è tra i personaggi storici più illustri al mondo, discendente da una delle più antiche famiglie aristocratiche romane, la gens Iulia. Fu generale, console, questore, pontefice massimo e dittatore romano, celebre per le sue imprese politiche e militari, tra cui la stipula del primo triumvirato, un accordo privato siglato con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (60 a.C.), e la conquista delle Gallie (55 a.C.). Nel corso della storia il suo nome è diventato sinonimo di comandante in diverse lingue, ad esempio in tedesco “kaiser”, in russo “zar” e in arabo “scià”.

 Cesare fu amato dal popolo: pur avendo origini aristocratiche, fece parte della fazione dei populares, il partito politico che sosteneva le richieste del popolo e che fu la base del potere dei tribuni della plebe ovvero la magistratura che rappresentava gli interessi dei ceti popolari romani. 

Ma se Cesare fu tanto amato dal popolo, quali furono i motivi che portarono alla pianificazione del suo omicidio?

Il generale, attraverso le sue vincenti campagne militari, strategie politiche e l’appoggio dei ceti popolari, acquisì sempre più potere. In particolare, attuò una politica di riforme finalizzata al consenso popolare, come la promozione delle opere pubbliche e la concessione della cittadinanza ai cittadini della Gallia Cisalpina conquistata, e prestò molta attenzione all’amministrazione delle 18 province dell’impero, eliminando la corruzione dei ceti aristocratici. Inoltre, il popolo venerò il dittatore, alimentando un vero e proprio culto della personalità incentrato sulla sua figura che venne celebrata anche attraverso statue collocate nei templi. Le sue riforme e il culto della personalità portarono il governo di Cesare ad assumere caratteristiche monarchiche, il che allarmò gli aristocratici romani, tanto legati alla tradizione e all’ordinamento repubblicano dell’impero da considerarsene custodi e difensori. Essi temevano l’eccessivo potere del generale, preoccupati che volesse diventare re di Roma e che potesse riportare la monarchia a Roma, perciò alcuni potenti aristocratici ordirono una congiura. Coloro che uccisero Cesare non furono più di una ventina, mentre gli aderenti al complotto furono tra 60 e 80 persone, tutti pretori o consoli, tranne un console (Gaio Cassio). A capo della congiura ci furono Gaio Cassio Longino, Marco Giunio Bruto e Decimo Giunio Bruto, ex-sostenitori di Gneo Pompeo, i quali guidarono un gruppo di circa 20 romani ad uccidere Cesare il pomeriggio del 15 marzo 44 a.C., durante una seduta del Senato.

Il dittatore venne pugnalato 23 volte: si racconta, secondo la tradizione, che morì emettendo solamente un gemito dopo il primo colpo, avvolgendosi dignitosamente la tunica addosso, e lo scrittore latino Svetonio riferisce che quando riconobbe il volto di Bruto, pronunciò questa celeberrima frase: “tu quoque, Brute, fili mi!”, “anche tu, Bruto, figlio mio!”. In realtà, lo scrittore riporta la frase in greco “Kai su teknòn” ovvero “Anche tu, figlio”, perché il greco era lingua d’élite romana, ma la citazione rielaborata divenne famosa con la dicitura latina. Ma questa versione dei fatti è stata poi messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare emise solo un gemito, senza riuscire a proferire parola. Sempre secondo la tradizione, Bruto avrebbe risposto alle parole del generale con “Sic semper tyrannis!“, “Così sempre ai tiranni!”.

Sempre secondo Svetonio, nei giorni precedenti alle Idi di marzo, la morte imminente venne preannunciata a Cesare attraverso vari fatti straordinari: durante la demolizione di alcune tombe venne ritrovata quella di Capi, fondatore di Capua, e al suo interno venne trovata una tavoletta in bronzo con scritto: “Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia”, e successivamente Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato al dio del fiume quando attraversò il Rubicone, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Anche la moglie Calpurnia cercò di convincerlo a non andare in Senato il 15 marzo, dopo aver sognato la sua morte. Il dittatore, per via dei presagi di morte e anche a causa del suo cattivo stato di salute, restò a casa, indeciso su cosa fare, fino a che Decimo Bruto, suo caro amico, lo esortò a presentarsi al Senato, e perciò egli uscì andando così incontro alla morte. 

Cesare fu dunque assassinato, ma in molti ancora oggi si chiedono come un uomo tanto intelligente e potente possa essersi fatto ingannare tanto facilmente e come sarebbe cambiata la storia se non fosse stato assassinato. Forse non sarebbe cambiata molto, d’altronde Roma era già sulla strada di diventare un Impero proprio grazie a Cesare, e sarebbe comunque salito successivamente al potere il figlio adottivo Ottaviano.

Giulia R. 2B

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