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Francesco Gili

Rincorrere.

Esserci e cercare oltre il ritmo delle cose. Gli enti che ci circondano, la natura, i fiumi, gli edifici, i boschi, tutto ha il suo ritmo. E poi andare al di là del ritmo, avventurarsi in quelle zone buie che mettono in dubbio il nostro stare qui e ora, ricercare a tentoni un significato oltre il ritmo delle immagini che ci si presentano vivendo. Questa è la realtà (perdonatemi questo termine così astratto) che mi è stata data; una lunghissima pellicola di visioni che entrano dentro di me con il loro ritmo. Sta a me sentire il loro ritmo per poi cercare il senso oltre di esso. Questa però è un’impresa impossibile, perché il senso che sta oltre è per definizione irraggiungibile. È qualcosa che noi uomini non possiamo toccare con mano, perché è oltre. Il nucleo delle cose, inteso come senso ultimo, è vuoto per noi e la sfida dell’essere qui e ora, per me, è cercare quel qualcosa che sta oltre il ritmo delle cose. Come già ho detto, i miei sensi mi permettono di carpire il ritmico fluire degli enti e degli eventi. Ma se il nucleo di ogni cosa oltre il ritmo è vuoto, che senso ha mettersi in cammino per cercare di raggiungere l’irraggiungibile? Fa paura non poter arrivare al significato  che sta oltre le cose, ma è proprio questa paura che mi stimola a mettermi in cammino, perfino a correre, anche se tutto ciò fosse vano. E il mio modo di correre è la letteratura.

Potrei dire di più: non si tratta semplicemente di correre, è più che altro un rincorrere. Perché quando si corre non è necessario avere un obiettivo, un fine. Io invece con la letteratura rincorro quel nucleo vuoto di cui ho parlato fino ad ora.

Potrei dire di più: non si tratta semplicemente di rincorrere. C’è qualcosa che allo stesso tempo mi rincorre, ed è quella paura di non giungere al senso ultimo, che a volte da paura diviene certezza.

Questo è la letteratura per me: un rincorrere il nulla. Un essere rincorsi dalla paura del nulla. E in fin dei conti accetto anche che mi si dica che è un muoversi invano. Ma io non riesco a stare fermo, perché sono convinto che l’unica cosa veramente necessaria sia mantenersi in movimento, non fermarsi mai, perché una volta che ci si ferma si inizia a perire, ci si sgretola dentro. L’importante è essere in movimento, cercando di frugare a tentoni oltre il ritmico fluire delle cose, anche se l’essenza di esse per noi è più che altro assenza.

 

  1. Io distruggo

 

Io distruggo non significa profezia, non vuol dire suonare o sprigionare dalle tempie il calore dei gigli letali. Io distruggo non è un raggio e il suo cammino lento non si conclude mai con un bacio in bocca, con un abbraccio nell’erba alta o con un dito che traccia il contorno dell’ombelico. distruggo è un verbo tanto quanto lo è asteroide, perché a volte vuol dire disfare, altre volte roteare con calma…

ma in questo giorno mite, non voglio parlare del distruggere. non so cosa voglia dire non so come si ordisca non so sillabare non so vorticare non so non so. non.

normalmente mi importa solo delle fette azzurre che tagliano le punte dei pini, ma oggi mi tormenta anche il pensiero della cenere tiepida che rimane sempre oltre la distruzione. e al di sotto di essa rimane la terra umida -non c’è benzina, no no amore mio- la terra umida con cui ci riempiamo completamente le orecchie, per seppellirle e conservare in esse le spine dei suoni passati. per ricominciare dal buio e no.

ecco come faceva il vento

e ora dove vai, cenere tiepida, su quel cavallo?

    II.

 

Non posso cantare con passeri

di fumo conficcati nelle mani,

non posso perché penso

solo a lune trafitte da steli

mentre mi masturbo

contro pareti bianche.

Non posso cantare, no,

ma saprò sempre tacere

e sedere sulla terra umida

di tenebre e tendere l’orecchio

per ascoltare i suoi canti.

Percepisco lontano un falò di farfalle suicide.

     III.

dedali di luci

pulsano al di sotto

della pelle delle tue cosce

sei un cervo luminoso in un torrente

sei uno stormo che si libra in volo

e l’eccitazione che diffondi è uguale

ai raggi solari nel mio inverno

  

     IV.

infrangi il lago con il pugno

e con le sue acque distilli

vino denso da riversare

sulla mia pietra scoperta

la mia pietra vuole vino

pieno di aghi e scogli riarsi

vuole gli occhi pieni di vele

pieni di lago pieni d’acqua

per gli spigoli dammi balsamo

niente contro cui schiantarmi

dammi respiro da cadere

da scolpire la mia pietra

Francesco Gili

Francesco Gili

Torino, 1997. Studia all’Università degli Studi di Bologna. Musicista e poeta, Ha studiato musica nella Scuola di Musica PercStudio. Un giorno batte la testa cadendo da una sedia e inizia a comprendere tutto con una sensazione di aver già vissuto le cose e di essere intrappolato negli esseri. Ha partecipato a diversi concorsi, risultando vincitore:

-al premio giovani al XII Concorso “Poesie nel Cassetto”,

-alla XXIV edizione del premio nazionale del DLF “Novipoesia”,

-al X concorso di Abbadia San Salvatore “Un Monte di Poesia”,

-al  XIV Concorso “InediTo”,

-al IV Concorso Internazionale “A. Merini”,

-al VII Concorso Internazionale “Acqui Terme” sezione C,

-secondo premio al concorso nazionale Pinetum cultura 2016,

-al concorso letterario dell’Istituto Benalba edizione 2016.

Inoltre, è stato finalista nell’edizione 2015 del Premio “Pannunzio” di Torino. Una sua opera è stata considerata meritevole di entrare a far parte dell’antologia poetica del Concorso Melegnano 2014. Nel 2016, l’autore è stato selezionato dalla Fondazione Mario Luzi di Roma per l’Enciclopedia di Poesia Contemporanea 2016. Ha partecipato al festival nazionale “Fractal” della poesia in Spagna e una sua opera, in lingua spagnola, è stata pubblicata nell’omonima antologia. Oggigiorno continua a studiare, scrivendo e suonando per gli oggetti e per gli alpinisti.

Elaborato da Matías M. Clemente.

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